Terapia al plasma contro il Coronavirus: perché non é ancora consolidata

Terapia al plasma contro il Coronavirus: perché non é ancora consolidata

Funziona bene e costa poco ma la plasmaterapia su pazienti affetti da Covid-19 non gode ancora del parere favorevole della scienza

Sono tante le sperimentazioni di farmaci e trattamenti in corso contro il Coronavirus. Tra queste c’é e fa rumore la plasmaterapia. Ma in cosa consiste questa cura, nata nel lontanissimo 1893 per il trattamento della difterite e già utilizzata per Ebola e Sars?  Stando alle guarigioni e alle dimissioni di cui si ha già notizia, sembrerebbe efficace anche contro il Covid-19: perché allora non gode ancora completamente dei favori della scienza?

Il plasma è la parte liquida del sangue ed é composto al 92% da acqua e dal restante 8% da proteine e sali minerali. La sua funzione è quella di trasportare molecole quali il glucosio necessario al metabolismo cellulare, lipidi, ormoni, diversi prodotti di scarto derivati dal metabolismo, ossigeno e anidride carbonica. La donazione di plasma, o plasmaferesi, consiste in un normale prelievo di sangue che, a differenza dei prelievi di sangue intero, viene immediatamente sottoposto a centrifugazione. Non tutti, però, possono donarlo: occorrono un’età compresa tra i 18 e i 60 anni, un peso corporeo maggiore o uguale a 50 kg, assenza di patologie quali epatiti virali o infezioni da HIV, essere uomini o onne che non hanno avuto gravidanze o aborti e, ovviamente, aver contratto il Coronavirus ed averlo completamente superato. Il trasferimento di plasma da una persona guarita da COVID-19 potrebbe, quindi, aiutare a neutralizzare il virus nel sangue dei pazienti malati, o comunque, ridurre le probabilità che l’infezione peggiori.

Funziona bene, costa poco, alcuni studi hanno dimostrato che la mortalità dei pazienti curati con questa terapia è scesa dal 15 per cento al 6; la plasmaterapia su pazienti affetti da Covid-19, però, non ha ancora risultati scientifici tali da autorizzarne l’utilizzo su grande scala. Nonostante i report dell’uso di questa  pratica clinica parlino di risultati positivi, permangono molte perplessità. I dubbi riguardano la concentrazione di anticorpi neutralizzanti, che è variabile da donatore a donatore, la possibilità di reazioni dell’organismo negative o di possibili effetti pro-coagulanti. Ci sono, insomma, ancora parecchi ostacoli, ma se la comunità scientifica collaborerà si arriverà presto a una soluzione concreta in attesa del vaccino. Nell’attesa alcune Regioni si stanno già organizzando con banche dati e protocolli.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*